OBBLIGHI INFORMATIVI NELLE OPERAZIONI DI INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA ALLA LUCE DELLE DIRETTIVE MIFID (Avv. Antonio Chicoli)
- Disciplina e fonti del diritto finanziario
Il diritto dell’intermediazione finanziaria è la disciplina che studia l’attività degli intermediari nelle operazione di investimento mobiliare, i doveri nei confronti dei risparmiatori, l’individuazione delle singole operazioni in valori mobiliari, la differenza tra valori mobiliari, il potere di rappresentanza dell'operatore finanziario, la disciplina regolamentare del mercato in borsa, il traiding on line (negoziazione di strumenti finanziari on line), i promotori finanziari.
A partire dal 1974, data di istituzione della Consob e di riforma del diritto societario, l’ordinamento del mercato finanziario ha realizzato notevoli progressi, le cui tappe fondamentali si trovano nell’approvazione della legge n. 77/1983, con la quale sono stati istituiti i fondi comuni di investimento ed è stata compiutamente disciplinata la sollecitazione del pubblico risparmio; nella legge n. 1/1991, che ha introdotto la nuova figura degli intermediari mobiliari; nella legge n. 149/1992, che ha regolamentato le offerte pubbliche di acquisto, vendita, sottoscrizione e scambio; nell’emanazione del decreto legislativo n. 415/96 di recepimento della direttiva Eurosim ed, infine, nell’emanazione del decreto legislativo n. 58/1998 di approvazione del Testo Unico che ha modificato, attualizzato e coordinato i diversi segmenti della disciplina riguardante il mercato del controllo sulle società quotate ed il mercato finanziario in genere. A ciò si aggiungono i regolamenti Consob che, emanati periodicamente, disciplinano la materia finanziaria e le operazione di investimento.
Gli interventi normativi hanno riguardato l’intera materia del mercato finanziario, allo scopo di eliminare - o quantomeno attenuare - le alterazioni che, influenzando negativamente la funzionalità del mercato, finiscono per ridurre o addirittura annullare la contendibilità del controllo delle società quotate.
Il paradigma della trasparenza del mercato ha ricevuto un ragguardevole impulso, tanto sotto il profilo dei flussi informativi provenienti dalle società quotate, quanto sotto il profilo degli assetti proprietari e di controllo (con specifico riferimento alla emersione dei patti parasociali) e delle operazioni di negoziazione di titoli azionari quotati.
Altre innovazioni contribuiscono al compimento del processo volto a favorire il perseguimento di obiettivi di efficienza del mercato, garantendo piena funzionalità ai meccanismi idonei a realizzare il trasferimento del controllo delle società. Rientra in questo quadro anche l’ottimizzazione della disciplina, allo scopo di orientare l’attività degli investitori istituzionali, verso obiettivi di tutela del pubblico risparmio; favorendone l’intervento nel mercato finanziario e la partecipazione ai momenti decisionali delle società.
- Evoluzioni del mercato
Il mercato finanziario ha subito in questo ultimo decennio un’evoluzione.
E’ il testimone dei mutamenti della società e del sistema produttivo che hanno caratterizzato e tuttora caratterizzano l'Italia: da mercato come relazione spaziale, a mercato come insieme di relazioni tra persone che desiderano scambiare a determinate condizioni, ulteriormente evolvendosi a seguito dell'applicazione delle tecnologie informatiche all'attività di negoziazione (borsa telematica), consentendo agli operatori di negoziare titoli in regime di indifferenza delle contropartite: è bene, possiamo senz’altro affermare che il mercato finanziario è importante non solo perché “maneggia denaro, ma anche e soprattutto perché maneggia informazioni”.
Il mercato finanziario, infatti, prima di essere un luogo di scambio di valori economici, è innanzi tutto un luogo ove si scambiano informazioni, poiché gli operatori finanziari basano le proprie scelte di mercato sulle informazioni in proprio possesso; e condizioni necessarie in grado di garantire l'efficienza del mercato, ovvero la capacità dell'ambiente operativo di riflettere rapidamente i prezzi e le informazioni riguardanti i titoli quotati in esso sono, dalla dottrina economica, individuati nella concorrenza perfetta tra gli operatori, nella diffusione immediata e gratuita delle informazioni, nel rapido adeguamento dei prezzi in occasione di nuove informazioni. L'informazione è il presupposto necessario di ogni attività dell'uomo, della sua partecipazione alla vita politica, economica e sociale: "l'informazione è potere e quindi la libertà della sua acquisizione, da parte dei cittadini, significa libertà di apprensione e di partecipazione al potere" anche economico.
Essere informati significa non solo acquisire una serie di dati e notizie, ma soprattutto conoscere e gestire il patrimonio informativo acquisito, operando delle scelte.
L'interesse all'informazione inerisce, in generale, all'ambito di tutta la sfera decisionale alla quale è chiamata la persona intesa quale centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive attive e passive; ponendosi in rapporto di mezzo-fine rispetto alle molteplici possibilità operative che l'ordinamento conferisce ad ogni soggetto, la libertà d'informazione e di essere informati, in quest'ampia estensione, assume altresì una funzione di vigilanza ponendosi in rapporto strumentale rispetto a queste molteplici possibilità, al punto che la sua garanzia, anche costituzionale, può essere configurata come tutela di ognuno, in tutti i settori dell'ordinamento: una vera concorrenza richiede ed impone la conoscenza di dati e notizie.
In conseguenza di ciò, è stata individuata nella stessa trasparenza una delle caratteristiche tipiche del mercato efficiente, giungendo a ritenere l'informazione una precondizione del corretto funzionamento del mercato stesso, una sua connotazione: la concorrenza può svolgersi correttamente solo ove gli operatori possano compiere le proprie scelte comportamentali in base a dati oggettivi e comparabili.
Orbene, uno dei motivi che rendono l’informazione più importante di quanto non sia in altri mercati, è la tipicità dei beni scambiati: i prodotti finanziari, sono prodotti la cui definizione ed il cui contenuto si esauriscono in una serie di situazioni giuridiche. "Chi acquista o vende un prodotto finanziario non negozia un bene dotato di un'utilità finale, di un valore d'uso e la cui definizione sia garantita sulla base di altre fonti di conoscenza. Le caratteristiche del bene sono interamente determinate dal contratto e non dalla realtà merceologica del bene stesso".
Considerato il mercato finanziario come l'insieme di "tutte le negoziazioni aventi ad oggetto attività e passività finanziarie, indipendentemente dalle caratteristiche di queste ultime, e riconducendo nell'ambito delle operazioni dello stesso tutte le operazioni che sono poste in essere per trasferire e trasformare mezzi finanziari dai settori in avanzo ai settori in disavanzo", rileva immediatamente il ruolo di protagonista rivestito dall'informazione, e l'esigenza di informazione per la competitività.
“La razionalità dell'operatore economico richiamata come postulato in molte teorie economiche e che presuppone il possesso di un bagaglio informativo idoneo a consentire scelte consapevoli, trova la sua necessaria valorizzazione in questo ambito: se è vero che la conoscenza dei beni che vengono trattati su di un mercato è indispensabile per consentire comportamenti razionali e quindi per garantire l'allocazione ottimale delle risorse, nell'ambito del mercato finanziario la necessità di garantire la conoscenza degli oggetti negoziati impone un grado di trasparenza che risulta superfluo nei mercati nei quali i beni hanno una loro definizione fisica percepibile indipendentemente dalle informazioni fornite dal produttore o dal negoziatore del bene stesso” . "In un mercato nel quale i prodotti in vendita non si pesano, non si toccano, non si assaggiano, non si apprezzano con lo sguardo, ma il cui valore è in larga misura dipendente da vicende e prospettive sottostanti, è chiaro che solo chi è correttamente informato è in condizione di perseguire e tutelare razionalmente i propri interessi".
- La banca
La banca svolge un ruolo di finanziamento tipico dell’intermediario.
L’impresa si rivolge alla banca per ottenere il prestito ed ella, sulla base di una serie di valutazioni del merito di credito, decide se concederlo e a che condizioni farlo. La banca può anche realizzare una forma di finanziamento diretto mediante l’emissione di titoli, organizzata da intermediari specializzati e/o apposite sezioni e l’emissione può essere rivolta al pubblico, oppure solo ad investitori istituzionali.
Da tutto quanto sopra emerge come la banca svolga un ruolo dominante in tutti i meccanismi, ella valuta, emette, funge da raccordo.
Nel caso dei bond (Cirio, Parmalat, Argentina) contestati, ad esempio, in giurisprudenza si parte subito da un presupposto che invece dovrebbe essere la logica conseguenza, cioè che: la banca è efficiente e come tale sapeva, o comunque non potevano non sapere.
La banca è qualcosa di più di una semplice istituzione; è un meccanismo paragonabile solo al gioco degli scacchi. Cosa fa un giocatore quando imbastisce una strategia? Ne elabora una per compensare una eventuale perdita e cosa fa successivamente? Ne elabora un'altra per compensare quella strategia che dovrebbe compensare e via dicendo…
Orbene una delle caratteristiche più interessanti che vincola tutti i prodotti finanziari, così come inquadrati dal testo unico finanziario, è il minimo comune denominatore: il prezzo e il mercato. Ciò significa che deve essere noto il denaro e la lettera (acquisto e vendita), ma anche il luogo ove vengono scambiati.
Lo scambio, ecco la parola chiave.
Se le banche compiono un operazione rischiosa, assumono una esposizione: devono crearsi un paracadute, devono in altri termini compensare, come? Hanno persino dato origine a interi mercati, come l’Otc, (Over The Counter), dove sono scambiati in prevalenza contratti derivati, fra cui per es. gli swap.
Che cosa è il contratto di swap? Un contratto con il quale due controparti decidono di scambiarsi dei flussi di cassa per un determinato periodo di tempo, in base ad un accordo in cui sono stabiliti tempi e le modalità di determinazione dei flussi di cassa stessi. Supponiamo che la banca X abbia prestiti a medio termine a tasso fisso (il che significa ricavi per il futuro) e abbia emesso obbligazioni a tasso variabile perché in quel momento era conveniente. Si trova quindi a dover fronteggiare un rischio, se i tassi saliranno i ricavi rimarranno gli stessi e i costi aumenteranno. Per coprire questa denegata ipotesi può compiere uno swap tra il flusso di ricavi a tasso variabile ed uno a tassi fissi di una banca di nome Y che si trova nella condizione opposta.
In un certo senso le banche si aiutano a non perdere.
Il significato di quanto si vuole esprimere è che se le banche hanno compiuto un operazione rischiosa, prestando denaro a una società che era in uno stato di difficoltà di bilancio, certamente sono corse anche ai ripari.
- Le banche hanno un attività storica, un business che dalla favola degli orafi ad oggi non è mai veramente cambiato, si è diversificato, ma non è mutato.
- L’attività storica della banca consente di tracciare un benchmark nell’andamento di questo core business, cui è ricollegabile anche una serie di indicatori di redditività.
Potete immaginare quanto sopra come al battito cardiaco, nel momento in cui viene compiuta un operazione atipica, si verifica un soffio cardiaco, anche piccolissimo, impercettibile, ma c’è, sempre.
La banca ha fatto qualcosa che esorbita dalla sua politica più consueta.
Azione uguale reazione, deve cercare una copertura, se potenzialmente si sente in perdita.
Bisogna ammirare ciò che le banche fanno, la loro meravigliosa perfezione nel contesto economico mondiale della globalizzazione, occorre imparare quel rispetto atipico che si comprende solo quando nel pronunciare il termine banca, state parlando di un istituzione che esisteva prima di tutti noi e continuerà ad esistere dopo.
Se esistesse un Olimpo della finanza, le Banche sarebbero dei.
GLI STRUMENTI FINANZIARI
- Azioni, Obbligazioni e Titoli di Stato
Lo scopo primario di chiunque investa del denaro è quello di ottenere un rendimento a fronte di un rischio. A parità di altre condizioni, un titolo di capitale è più rischioso di uno di debito, in quanto la remunerazione spettante a chi lo possiede è maggiormente legata all'andamento economico della società emittente (il detentore di titoli di debito rischia di non essere remunerato solo in caso di dissesto finanziario della società emittente). In caso di fallimento della società emittente, i detentori di titoli di debito possono partecipare, con gli altri creditori, alla suddivisione – che comunque si realizza in tempi lunghi – dei proventi derivanti dal realizzo delle attività della società, mentre è pressoché escluso che i detentori di titoli di capitale possano vedersi restituire parte di quanto investito.
- Le azioni
Dal 1999 le famiglie italiane detengono stabilmente più del 25% della capitalizzazione complessiva del mercato azionario (circa la metà del flottante), rappresentando una quota importante di domanda e una fonte rilevante di risorse per le società che decidono di finanziarsi attraverso di esso.
- Rischi e opportunità dell'investimento azionario
Sia per i titoli di capitale che peri titoli di debito, il rischio può essere idealmente scomposto in due componenti: Rischio specifico e rischio sistematico.
Il rischio specifico dipende dalle caratteristiche peculiari dell'emittente e può essere diminuito sostanzialmente attraverso la suddivisione del proprio investimento tra titoli emessi da emittenti diversi (diversificazione del portafoglio), mentre il rischio sistematico rappresenta quella parte di variabilità del prezzo di ciascun titolo che dipende dalle fluttuazioni del mercato e non può essere eliminato tramite la diversificazione. Il rischio sistematico per i titoli di capitale trattati su un mercato organizzato si origina dalle variazioni del mercato in generale.
Prima di ogni investimento in strumenti finanziari, la presenza di questi rischi richiede che l'investitore proceda alla raccolta di tutte le informazioni sulla natura e i rischi delle operazioni che si accinge a compiere. Ogni investitore deve cioè concludere un'operazione solo se ha ben compreso la natura e il grado di esposizione al rischio che comporta. Inoltre, ogni investimento non dovrebbe prescindere dalla valutazione dell'intera situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’investitore.
- Diversificazione e conoscenza
A differenza del rischio sistematico, il rischio specifico di un particolare strumento finanziario può essere eliminato attraverso la diversificazione, cioè la suddivisione dell'investimento tra più strumenti finanziari. Tale ripartizione, conosciuta come diversificazione del portafoglio, ha una funzione intuitivamente ricollegabile al proverbio "non mettere tutte le uova nello stesso paniere". Il motivo per cui è meglio non mettere tutte le uova nello stesso paniere è semplice. Se tutte le uova sono nello stesso paniere e questo subisce un urto particolarmente forte, tutte le uova si rompono. Se invece si pongono le uova in due o più panieri, è difficile che tutti i panieri subiscano urti rilevanti.
La teoria della diversificazione del portafoglio applica la stessa intuizione alle attività finanziarie. Nei termini del proverbio, le uova sono le unità di ricchezza del risparmiatore, mentre il paniere è rappresentato dalle attività finanziarie. Mettere tutte le uova nello stesso paniere, significa utilizzare tutta la propria ricchezza per acquistare solo un titolo, mentre riporre le uova in panieri diversi equivale a investire varie unità di ricchezza in titoli diversi. Nel primo caso, si corre il rischio di investire in un titolo finanziario che potrebbe rivelarsi negativo. Un parco titoli contenuto si presta, infatti, a un investimento speculativo. L'azzeramento del valore può generare, infatti, perdite irrecuperabili. Nel secondo, si spera che fra tutti i titoli acquistati ce ne sia qualcuno che vada bene e possa più che compensare quelli che registrano un andamento negativo. Un'adeguata frammentazione ha proprio lo scopo di ridurre l'effetto provocato dalla caduta di un titolo su tutto l'investimento.
Uno degli errori in cui, in mancanza di adeguate conoscenze, si rischia di imbattersi quando si decide di costruire un portafoglio azionario, è la concentrazione della maggior parte del capitale in pochi titoli per di più appartenenti a uno stesso settore. Come dimostra la storia dell'ultima bolla speculativa a cavallo del passaggio al terzo millennio, moltissimi hanno costruito portafogli esposti oltre misura sui titoli di uno stesso settore (quello alimentare nel caso specifico). Inoltre, esistono dati che dimostrano che la maggior parte degli investitori opera con un numero ridotto di titoli. Stando a una ricerca di Borsa Italiana, sul finire del 2004, il 93,5% degli investitori in azioni italiane possedeva meno di cinque titoli, e tre su quattro al massimo due. Sebbene per un investitore con un patrimonio limitato possa risultare costosa e difficile da attuare, in linea di massima la diversificazione è fondamentale per avere un portafoglio in cui il rischio è ridotto. Di conseguenza, a seconda dell'entità del portafoglio, l'investitore dovrà diversificare i propri investimenti, acquistando titoli di società che reagiscono in maniera diversa alle fluttuazioni del mercato azionario o variando i tipi di beni del proprio portafoglio. In altre parole, suddividendo il proprio capitale in settori che hanno una diversa correlazione con il mercato: se durante le fasi "toro" questa strategia può rivelarsi penalizzante, durante quelle "orso" senza dubbio consente di preservare il capitale da perdite incontrollate. Eccezion fatta per quello industriale e pochi altri, difficilmente all’interno di un settore i titoli seguono trend differenti.
È poi indubbiamente importante che la scelta dei titoli sia guidata da una giusta dose di conoscenze. Al contrario, purtroppo, le scelte spesso sono fatte non in funzione di una strategia oculata, ma semplicemente attraverso il passaparola e l'influenza dei media: secondo uno studio condotto sulla base di un'indagine Doxa, in Italia le azioni spesso vengono scelte perché appartenenti a società conosciute a livello nazionale (anche Parmalat e Cirio rientravano a questa categoria), ma anche per aver udito dei rumor o perché si tratta di titoli consigliati sui quali non si ha però una specifica opinione. Lo studio rivela anche che il 60% degli investitori in azioni non sa distinguere tra strumenti quotati e non quotati.
Se l'investimento "fai-da-te" sul mercato italiano già espone a dei rischi, questi sono ancora più elevati in tema di strumenti negoziati sui mercati stranieri: è improbabile che l'investitore privato abbia gli strumenti adatti a valutarne la convenienza e, in secondo luogo, si trova esposto a una disciplina e una regolamentazione diverse.
Per di più, l'investimento in titoli esteri espone a rischi legati all'incapacità e talvolta all'impossibilità di intervenire prontamente in presenza di operazioni di finanza straordinaria, come nel caso delle offerte pubbliche di acquisto (OPA). Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi di investitori che non hanno aderito a queste operazioni, non essendone a conoscenza, e si sono poi ritrovati con titoli privi di qualunque valore. Ne è un esempio l’OPA su Gucci lanciata da Pinault Printeps l'operazione non contemplava in alcun modo il mercato italiano e quindi chiunque, al momento del lancio dell'operazione, avesse avuto in carico titoli Gucci non avrebbe potuto aderirvi (questo in quanto, non essendo mai stata lanciata in Italia, l'offerta non era stata sottoposta al vaglio della CONSOB per il rilascio delle autorizzazioni necessarie alla sollecitazione all'investimento o, come nel caso in questione, al disinvestimento). Così, nonostante le azioni Gucci possedute dai risparmiatori italiani fossero una percentuale minima, non sono mancati casi di risparmiatori che, post OPA, si sono ritrovati in carico titoli privi di qualsiasi valore e, soprattutto, difficili da vendere (hanno continuato a circolare in via esclusiva presso il New York Stock Exchange con volumi ridottissimi). Un discorso analogo vale per l'OPA lanciata da Air France su KLM. In questo caso, alcuni risparmiatori, ignari delle conseguenze, hanno addirittura deciso di non aderire all'OPA residuale, sulla base di valutazioni personali in merito alla convenienza del prezzo offerto, inferiore a quello pagato in sede di acquisto, e hanno continuato a mantenere i titoli in portafoglio, salvo poi rendersi conto dell'inutilità della scelta fatta. Il buon esito dell'OPA residuale ha poi portato al successivo ritiro delle azioni rimaste in circolazione (inferiore al 2% del totale) allo stesso prezzo fissato per quest'ultima.
Con questo non si vuole dire che non bisogna mai investire in titoli stranieri. Anzi, la loro presenza permette di realizzare una diversificazione geografica. Occorre però che in precedenza si studino attentamente mercati e settori. Come del resto è necessario fare anche se si rimane nell'ambito della Borsa italiana: se ci si focalizza su titoli appartenenti a una stessa catena societaria, le vicende di un'azienda inevitabilmente ricadranno sulle altre società collegate. Difficilmente il lancio di un profit warning da parte di una queste lascerà indifferente l'andamento borsistico delle altre. Per non parlare dei rischi, già segnalati per i titoli esteri, legati all'incapacità di valutare la convenienza di eventuali operazioni straordinarie che a vario titolo interessassero i titoli in esame.
- Solidità patrimoniale, report finanziari e conflitto di interesse
Per gli investimenti in strumenti finanziari è fondamentale apprezzare la solidità patrimoniale delle società emittenti e le loro prospettive economiche, tenuto conto delle caratteristiche dei settori in cui operano. E’ vero che, dai tempi della bolla speculativa, report e raccomandazioni sono sempre più disponibili sui vari media (giornali specializzati e non, siti internet di finanza e investimenti). E’ altrettanto vero, però, che tra i risparmiatori privati la tendenza ad un'informazione articolata, non è molto diffusa, e che talvolta i giudizi espressi da talune società di investimento non sono "indipendenti" e fra l'altro giungono a conoscenza del grande pubblico quando sono già vecchi e l'effetto sul prezzo del titolo è già avvenuto.
Dai tempi dello scoppio della "bolla speculativa" il problema dell'indipendenza e del conflitto di interesse cui l'analista finanziario può trovarsi esposto nell'esercizio della sua attività professionale è salito alla ribalta.
Il conflitto di interesse può tradursi, infatti, in indebite pressioni sull'integrità professionale dell'analista e dar luogo a un eccesso di positività nei giudizi di investimento espressi, proprio come è spesso avvenuto sul finire degli anni '90.
Nell'elaborazione di ricerche e studi relativi a società quotate, l'analista finanziario, per valutare l'informazione diffusa dalla società, dovrebbe basarsi principalmente sul proprio giudizio e sulle proprie competenze. Le analisi dovrebbero, cioè, basarsi sul complesso delle informazioni pubblicamente disponibili e, in primis, sui dati risultanti dai bilanci aziendali. Negli ultimi anni, invece, molto spesso l'attività di analisi ha avuto la funzione di sostenere la vendita dei titoli in occasione e in seguito ai collocamenti, di agevolare l'eventuale attività di market making e in generale di conferire liquidità e valore ai titoli di proprietà dei clienti in modo da garantire e rafforzare il placing power dell'investment bank quando i clienti vogliano smobilizzarli.
Difficilmente un analista finanziario potrà raccomandare la vendita di un'azione quando l'investment bank per cui lavora è – o è stata – collocatrice di quel titolo, anche se la situazione finanziaria dell'azienda studiata si è improvvisamente deteriorata. E’ vero che le leggi in vigore puntano sempre più alla separazione tra l'attività di collocamento e quella di negoziazione (da cui formalmente dipendono le ricerche e gli studi), ma ciò non è sufficiente a garantire la completa indipendenza dei report degli analisti.
Questo non significa che si debbano ignorare tutte le raccomandazioni, anzi. Anche il lavoro degli analisti è soggetto alla dura legge del mercato. Se l'investment bank insiste nel raccomandare l'acquisto di titoli che si rivelano ex post assai deludenti in termini di crescita degli utili, si può essere certi che perderà i propri clienti.
Al maggiore coinvolgimento di soggetti non finanziari negli assetti proprietari di banche, nel tempo, è corrisposto un accresciuto ruolo di queste ultime nei gruppi industriali, spesso derivante da operazioni di salvataggio di particolare importanza per l'economia nazionale o dal finanziamento di piani di espansione industriale. L'evoluzione del rapporto tra banche e imprese ha intensificato quegli intrecci negli assetti proprietari e di controllo dai quali possono derivare conflitti di interesse. Infatti, anche nella distribuzione di prodotti finanziari e nella prestazione di servizi di investimento, i conflitti di interesse e le asimmetrie informative sono state enfatizzati dal ruolo predominante delle banche. In tutte le principali crisi è, dunque, emersa una sistematica sottovalutazione dei rischi e degli interessi degli investitori, a fronte di un crescente contributo positivo dato ai bilanci dai servizi diversi dalla tradizionale attività creditizia. Ne consegue che un'informazione societaria affidabile, in termini di veridicità dei dati, e l'indipendenza di giudizio dell'analista sono due elementi di fondamentale importanza. Sebbene neanche l'analista finanziario indipendente possa sfuggire all'handicap rappresentato dalla carente affidabilità dell'informazione societaria, quanto meno può garantire l'indipendenza nella formulazione delle proprie analisi.
Vendere e poi pentirsi? Se da un lato, gli analisti finanziari consigliano raramente ai propri clienti di vendere, anche gli investitori tendono a tenere in portafoglio troppo a lungo investimenti perdenti e a vendere azioni vincenti troppo in fretta. Se così non fosse stato, le perdite legate allo scoppio della bolla speculativa sarebbero state di gran lunga minori. Invece, negli anni successivi allo scoppio della bolla, l'incapacità di mantenere un equilibrio psicologico, una metodologia mentale e operativa atta a conservare l'obiettività e la razionalità anche nei momenti più difficili hanno mietuto davvero tante vittime. E continuano a mieterne. Ancora oggi ci sono investitori che nella speranza di recuperare parte delle perdite accumulate dal 2000 continuano a mantenere nei propri portafogli titoli che invece sarebbe di gran lunga preferibile vendere. Un buon numero di soggetti, cioè, continua a detenere titoli azionari per non dover monetizzare situazioni di perdita. L'essere umano, in genere, tende a rimanere affezionato alle proprie convinzioni ed è poco disponibile a cambiarle anche in presenza di chiara evidenza contraria. Per di più, in presenza di vivi ricordi di decisioni non ottimali, gli investitori sono indotti a ridurre la loro propensione al rischio, pur di non commettere ulteriori scelte errate.
- Equilibri e valutazione di un titolo
Nella valutazione di un titolo non si può assolutamente prescindere dall'analisi dell'equilibrio economico, patrimoniale e finanziario. L'equilibrio economico è sintetizzato dalla folta schiera di indici di redditività che servono all'analista per valutare se e quanto l'attività caratteristica dell'impresa incide sulla redditività complessiva dell'azienda. L’equilibrio patrimoniale mira invece a valutare la giusta rispondenza tra fonti e impieghi. Perché una società possa considerarsi gestita correttamente è necessario valutare la giusta rispondenza tra fonti e impieghi. Per quanto riguarda infine l'equilibrio finanziario, i relativi indici mirano a mettere in evidenza la distribuzione delle fonti tra capitale proprio e capitale di debito. L'analisi di questi equilibri deve servire all'analista per evidenziare quali sono le aree che contribuiscono alla crescita economica dell'azienda, e soprattutto se questa, alla luce del contesto in cui la società opera, cioè analizzando settore e paese di appartenenza, è realmente sostenibile. Fermi restando i limiti insiti nell'affidabilità dei dati divulgati, l'analista finanziario svolgerà la propria attività al fine di cercare ed evidenziare le aree critiche della gestione. Prima ancora di procedere a raccomandazioni d'acquisto, dovrà quindi puntare a valutare lo stato di salute di un'azienda, la sua corporate governante, la trasparenza nell'informativa alla comunità finanziaria.
Dal lato finanziario, invece, equilibrio patrimoniale ed equilibrio economico devono aiutare a capire se la società sia o meno in grado di autofinanziarsi o se, piuttosto, non mostri una dipendenza eccessiva dal capitale di terzi.
Al di là dei calcoli per la costruzione degli indici, è importante che l'investitore si ponga in maniera critica nei confronti di questi numeri. Di per sé un incremento dell'utile netto del 50 o 60% non è sufficiente ad affermare che la società gode di buona salute. Per quanto possibile supportato dalle analisi a disposizione, l'investitore deve cercare di indagare fino a capire, pur in presenza dei limiti oggettivi esistenti, in che modo quel risultato è stato conseguito. Al riguardo sarà allora utile cercare di capire se e in che misura quell'utile sia scaturito dall'attività caratteristica d'impresa piuttosto che dall'attività straordinaria o da una proficua gestione finanziaria.
Al di là dei numeri comunicati trimestralmente, nella valutazione di una società, non si dovrebbe prescindere da valutazioni sul management del gruppo, né dall'eventuale esistenza di stock option a favore degli stessi. Questi schemi retributivi – che consistono nel pagare i dirigenti con opzioni sulle azioni della propria società – negli anni hanno avuto l'effetto di incentivare alcuni artifizi contabili utili a gonfiare i profitti e di riflesso le remunerazioni dei dirigenti.
Il consulente, supportato dall'analista finanziario, deve aiutare il risparmiatore a leggere al di là delle righe, a non investire in assenza di un'adeguata conoscenza. Questo, in quanto molto spesso capita che gli organi direttivi aziendali comunichino al mercato i dati contabili migliori tralasciando quelle "zone d'ombra" che potrebbero influenzare le performance del titolo, oppure che aggreghino le risultanze contabili in opportuni indicatori che dipingono una situazione più florida di quella reale.
È pur vero che, per effetto della riforma in atto, molte delle aree che fino a pochi anni fa si prestavano a manipolazioni da parte del management per effetto dell'introduzione dei nuovi principi contabili saranno assoggettate al rispetto di criteri di valutazione più stringenti.
Contrariamente a quanto previsto dai "vecchi" principi contabili nazionali, gli IAS contemplano infatti nella redazione dei bilanci societari la prevalenza della sostanza sulla forma. Per queste ragioni, contrariamente alla prassi largamente utilizzata in passato, dal settembre 2005 le società tenute al rispetto di questi nuovi principi nella valutazione delle poste di bilancio, dovranno fare ricorso quasi esclusivamente al criterio del fair value.
Si tratta di un criterio che mira a far sì che, nel momento in cui decide di sottoscrivere un'azione, l'investitore sappia che cosa compra effettivamente. I nuovi principi, che si ispirano a un modello da tempo diffuso nei paesi anglosassoni, mirano cioè a far sì che il prezzo di un titolo azionario rispecchi il valore dell'azienda, oltre alle prospettive di crescita della società. Il principio del fair value si basa sul presupposto che i valori espressi in bilancio riflettano il loro valore di scambio, al fine di evitare il mantenimento in bilancio di valori "non più reali".
Indubbiamente questi nuovi principi si prestano a una maggiore volatilità. Proprio perché le valutazioni avverranno al fair value, con molta probabilità i confronti intertemporali richiederanno una maggiore attenzione. Per di più i nuovi principi non prevedono più la contabilizzazione separata delle poste di carattere straordinario. In quanto riferibili al business d'impresa, anche se non inerenti l'attività tipica dell'impresa o non ricorrenti, questi costi e proventi non verranno più esposti come straordinari. Fermo restando alcuni problemi legati alla loro piena implementazione, questi principi rappresentano una vera e propria rivoluzione nella vita delle aziende.
- Le obbligazioni
Il peso dei singoli titoli obbligazionari all'interno dei portafogli dei risparmiatori è andato via via diminuendo negli anni in quanto si è assistito al trasferimento delle obbligazioni, in particolar modo dei titoli di Stato, dai depositi amministrati ai prodotti del risparmio gestito. In ogni caso, la componente obbligazionaria è sempre presente nei portafogli degli investitori e ricopre un peso rilevante tra le attività finanziarie delle famiglie italiane.
- Definizioni di base
I titoli a reddito fisso rappresentano una tipologia di investimento che costituisce una buona percentuale dei portafogli di gran parte degli investitori. E sono tendenzialmente percepiti come sinonimo di investimento semplice, sicuro e di conseguenza non molto remunerativo.
Sebbene il termine "reddito fisso" ci faccia pensare che i rendimenti derivanti da questi titoli siano certi, quelli realizzati possono differire (in alcuni casi ampiamente) da quelli attesi. A tal proposito, la confusione di molti investitori deriva dal concetto errato di rendimenti certi e dalle molteplici tipologie di titoli a reddito fisso.
I titoli a reddito fisso sono strumenti rappresentativi di un rapporto di debito/credito fra un emittente (debitore) ed un investitore (creditore), tipicamente negoziati sui mercati mobiliari. Si tratta di strumenti a reddito fisso poiché le modalità di compenso promesso all'investitore, vengono stabilite contrattualmente in anticipo e sono indipendenti dal livello di redditività dell'emittente.
Rientrano in questa definizione gli strumenti del mercato monetario, i certificati di deposito, i titoli obbligazionari emessi dagli stati (titoli del debito pubblico), da imprese (corporate bond), dalle banche, da enti pubblici, autorità locali, nazionali e sovranazionali.
In particolare, i titoli obbligazionari sono costituiti da certificati che rappresentano una frazione di un'operazione di finanziamento, di uguale valore nominale e con uguali diritti. Le obbligazioni, infatti, sono emesse per reperire direttamente presso il pubblico dei risparmiatori fondi per finanziare la propria attività a condizioni più vantaggiose, con la garanzia del rimborso a scadenza degli stessi e del pagamento di un interesse periodico (cedola).
In passato i titoli obbligazionari venivano emessi con cedole rapportate a un tasso nominale fisso e rimborsate in un'unica soluzione a scadenza. Negli ultimi anni il processo di innovazione finanziaria ha portato significative modifiche a questo schema, rendendo i titoli obbligazionari (e gli strumenti connessi) un segmento dei mercati finanziari particolarmente articolato e spesso complesso che offre una molteplicità di scelte adatte a ogni profilo di rischio. Tuttavia, a causa dell'ampia gamma di clausole specifiche che oggi caratterizza ogni singola emissione, gli investitori spesso hanno difficoltà nel valutare la redditività e la rischiosità dei titoli obbligazionari, ai fini di una valida gestione degli investimenti.
Ma prima di entrare nel merito degli aspetti tecnici legati alla valutazione dei titoli obbligazionari, bisogna fissare alcuni principi base. Nei mercati finanziari, e non fa eccezione il segmento obbligazionario, non si compra rendimento, ma solo rischio. Il rendimento rappresenta la remunerazione per il rischio che si sta assumendo. Questo vuol dire che ciascun investitore deve anzitutto aver ben chiaro il proprio profilo di rischio e, contemporaneamente, fissare gli obiettivi legati all'investimento. Tale passaggio si rende necessario perché non è possibile valutare l'adeguatezza e la convenienza di uno strumento finanziario, senza aver delineato le esigenze specifiche del soggetto investitore. A tal proposito è opportuno sottolineare come non esiste un titolo obbligazionario migliore di un altro: ogni obbligazione, complessa o semplice che sia, risponde a una precisa finalità di investimento. Bisogna verificare se tale finalità è congrua con gli obiettivi posti dall'investitore. A tal fine è opportuno conoscere le caratteristiche principali che sottendono la struttura finanziaria dei titoli obbligazionari, specie quelli di ultima generazione.
- Le criticità dei titoli obbligazionari
- Principali caratteristiche e tipologie di obbligazioni
Abbiamo visto come un titolo obbligazionario sia uno strumento di debito che dà diritto al possessore di ricevere un flusso prefissato di pagamenti futuri. Questo flusso comprende normalmente degli interessi periodici, ovvero il pagamento delle cedole (calcolate come percentuale del valore nominale), e il rimborso del capitale pari al valore nominale.
Le tipologie principali di obbligazioni da cui derivano tutte le altre sono le seguenti:
- a tasso cedolare fisso – tipologia tradizionale di obbligazione, sono titoli la cui cedola rimane fissa per tutta la durata. Alla scadenza l'investitore riceve una somma di denaro pari al valore di rimborso dei titoli posseduti, mentre durante la vita dell'obbligazione riceve gli interessi sotto forma di cedole maturate e incassate con cadenza trimestrale, semestrale o annuale;
- zero coupon – sono titoli obbligazionari che rientrano nella tipologia a tasso fisso. In questo caso, tuttavia, gli interessi non maturano sotto forma di cedola, ma il rendimento è dato dalla differenza tra il valore di rimborso e il prezzo di acquisto;
- a tasso variabile – sono obbligazioni caratterizzate da cedole variabili in funzione di un determinato parametro. Il meccanismo di indicizzazione consiste nel collegare la cedola a un tasso di riferimento a breve termine predefinito all'emissione (EURIBOR, LIBOR). In pratica, se aumenta tale tasso, sale anche il valore della cedola.
Per valutare la redditività dei titoli obbligazionari dalla struttura tradizionale si sente spesso parlare di numerosi indicatori dalle sigle strane, primo fra tutti il cosiddetto TRES, ovvero il tasso di rendimento effettivo alla scadenza.
Matematicamente, il TRES esprime semplicemente il tasso di sconto medio utilizzato per attualizzare le cedole e il rimborso del capitale che avranno luogo con scadenze future diverse. Intuitivamente rappresenta, sotto determinate ipotesi, il rendimento annuo derivante dall'acquisto di un'obbligazione, a un determinato prezzo e mantenuto fino a scadenza. Così come vedremo che per misurare la durata di un titolo obbligazionario non viene usata la scadenza bensì la duration, per misurare il rendimento non viene utilizzata la sola percentuale espressa dal valore cedolare, ma il TRES, che tiene conto non solo delle singole cedole ma anche del valore di rimborso, ponderando ogni elemento per il tempo che intercorre prima che tali flussi vengano incassati.
Trattandosi di un indicatore, il TRES rappresenta semplicemente una stima del possibile rendimento ottenibile dall'acquisto di un titolo obbligazionario che, ex post, si rivela tanto più precisa tanto più sono prevedibili i flussi di cassa generati dai titoli.
Fissato un obiettivo di investimento, la valutazione di un titolo obbligazionario deve essere conseguenza di un'analisi nell'ambito della quale devono essere esaminati congiuntamente diversi elementi di criticità:
- rendimento (TRES);
- struttura finanziaria del titolo (presenza di opzioni/clausole);
- esposizione al rischio tasso di interesse (duration);
- valutazione rischio default dell'emittente (rating);
- liquidità del titolo (spread bid/ask).
Il monitoraggio delle posizioni assunte richiede un'attenta e costante visione dell'evoluzione del mercato finanziario, prestando particolare attenzione ai movimenti della curva dei tassi di interesse e al possibile mutamento dei merito di credito dell'emittente.
A tal proposito gli eventi da tenere in considerazione sono:
attuazione delle clausole contrattuali da parte degli emittenti, in particolare possibili riacquisti (opzione cali) dei titoli oppure previsione di cedole massime; reinvestimenti delle cedole ai nuovi tassi di mercato; impatto dei movimenti dei tassi sul portafoglio con conseguenti aumenti/riduzioni della duration; outlook creditwatch pendenti sugli emittenti; illiquidità del titolo dovuto a cause non collegabili all'emittente.
Negli ultimi anni, però, valutare la redditività è diventato sempre più complesso a causa delle diverse clausole/opzioni che contribuiscono a rendere la struttura finanziaria del titolo molto più articolata e difficile da comprendere. Ad esempio, può capitare di avere in portafoglio titoli che in funzione degli andamenti dei tassi di interesse, dovrebbero diventare particolarmente remunerativi e invece non lo diventano. Questa situazione è dovuta semplicemente al fatto che molti titoli vengono accompagnati da opzioni - definite cali - attraverso cui gli emittenti si riservano la facoltà di richiamare il prestito obbligazionario a una data prestabilita e a un prezzo prefissato. La strategia è molto semplice. Gli emittenti collocano sul mercato titoli leggermente più remunerativi rispetto ai tassi di mercato. Se questa condizione dovesse permanere anche in futuro e, dunque, se i tassi non dovessero muoversi secondo le loro stime, gli emittenti si riservano la facoltà di riacquistare il prestito e rientrare sul mercato a condizioni più favorevoli. Oppure i prestiti possono prevedere, in base a meccanismi più o meno complessi, il pagamento di cedole particolarmente alte ma che non possono superare una determinata soglia: è il caso della cosiddetta opzione cap.
Alla luce di tutto questo si comprende bene come diventi difficile valutare la redditività dei titoli e, soprattutto, capire se hanno caratteristiche in linea con le nostre esigenze. E non solo. Quando si sottoscrivono obbligazioni con strutture finanziarie complesse, si sta in un certo senso scommettendo su un movimento dei tassi opposto rispetto alle stime effettuate dall'emittente. Il concetto può essere meglio spiegato con un esempio. Nell'ultimo periodo abbiamo assistito a una forte crescita (in termini di quantità di emissioni) di obbligazioni con cedole fisse per i primi anni e poi collegate direttamente, mediante un multiplo, al differenziale dei tassi (solitamente il tasso swap decennale e il tasso swap a 2 anni). Questo vuol dire che chi ha sottoscritto tali obbligazioni ha scommesso sul possibile irripidimento della curva dei tassi con conseguente aumento del valore cedolare. Una visione opposta a quella dell'emittente, che si attende un appiattimento tale da ridurre il costo del finanziamento. Il messaggio non deve essere quello di considerare tali obbligazioni più o meno buone. Esse rappresentano semplicemente delle scommesse sul futuro andamento dei tassi, con un'avvertenza: gli emittenti dispongono o si affidano a uffici studi che analizzano il mercato e i futuri possibili scenari. I risparmiatori che le sottoscrivono no.
L'analisi di ciascuna attività finanziaria non può soffermarsi solo sulla redditività. Il discorso deve essere necessariamente ampliato alla sua rischiosità che, nel caso dei titoli obbligazionari, assume diversi aspetti. In particolare, bisogna tener conto dell'impatto che un movimento dei tassi di interesse può generare sul prezzo dei titoli obbligazionari (duration), della probabilità che l'emittente fallisca e che quindi venga meno ai pagamenti dovuti (rating) e, infine, della possibilità di acquistare o vendere il titolo senza sopportare perdite in conto capitale (rischio di illiquidità).
- La duration
Quando gli investitori in titoli a reddito fisso parlano della "lunghezza" di un titolo, fanno normalmente riferimento al numero di anni a scadenza. L'espressione "obbligazioni corte" si riferisce solitamente ai titoli con durata inferiore ai 3-5 anni, mentre "obbligazioni lunghe" si riferisce generalmente ai titoli con una scadenza di 10 anni o superiore.
Tuttavia, in ambito finanziario esiste una misura alternativa alla durata di un titolo obbligazionario, la duration. Per capire il significato della duration e come tale indicatore debba essere utilizzato, bisogna innanzitutto capire qual è la relazione tra i movimenti dei tassi di interesse e i prezzi dei titoli obbligazionari.
I prezzi dei titoli obbligazionari si muovono sempre, almeno quelli con una struttura a tasso fisso, nella direzione opposta ai tassi di interesse. Questo principio dipende dal fatto che il prezzo di un titolo obbligazionario deriva dalla somma dei valori attuali dei flussi di cassa (cedole e rimborso del capitale) associati al titolo stesso. Con l'aumento dei tassi di interesse, diminuisce il valore attuale di questi flussi e, dunque, il prezzo del titolo; viceversa, a seguito di una diminuzione dei tassi, aumenta il valore attuale e quindi il prezzo. Tale relazione inversa tra movimenti dei tassi di interesse e prezzi dei titoli obbligazionari comporta il cosiddetto "rischio tasso di interesse" e corrisponde al fatto che l'investitore, in una situazione caratterizzata da un aumento dei tassi di interesse, vede diminuire il valore dei titoli e quindi è esposto al rischio di incorrere in perdite in conto capitale (prezzo di vendita inferiore a quello di acquisto) qualora debba vendere il titolo prima della scadenza (se invece il titolo è portato a scadenza, il rischio legato ai movimenti dei tassi di interesse viene annullato).
È naturale pensare come l'investimento in obbligazioni "lunghe" esponga l'investitore a un rischio di tasso di interesse maggiore rispetto alle obbligazioni "corte": in caso di movimenti al rialzo dei tassi, si è costretti a detenere il titolo fino a scadenza (dunque per un periodo lungo) per non incorrere in perdite in conto capitale, rinunciando a investire a tassi di interesse più alti (tranne per la componente cedolare via via maturata), oppure a vendere il titolo prima della scadenza sopportando delle perdite.
Data la relazione inversa che intercorre tra i prezzi dei titoli obbligazionari e i tassi di interesse, un altro aspetto importante è capire quali siano i titoli che si mostrano più reattivi ai movimenti al rialzo o al ribasso della curva dei tassi. La regola generale, almeno per i titoli a tasso fisso, è che più lontana è la scadenza, maggiore sarà il grado di sensibilità del prezzo in seguito a variazioni dei tassi. Ciò avviene perché la scadenza più distante allontana il momento di esigibilità del capitale estendendo l'intervallo temporale entro il quale non può essere impiegato e rimane soggetto alle variazioni dei tassi.
Tuttavia, la sensibilità dei prezzi delle obbligazioni alle variazioni dei tassi non dipende solo dalla vita residua, ma anche dalla distribuzione nel tempo dei pagamenti (incasso delle cedole e rimborso del capitale).
A parità di vita residua, infatti, un titolo che paga cedole espone l'investitore a un rischio legato ai movimenti dei tassi inferiore rispetto a un titolo senza cedole (zero coupon). In caso di un aumento della curva dei tassi, ad esempio, un titolo che stacca cedole, pur subendo una riduzione del prezzo, consente all'investitore di ottenere durante il periodo di detenzione i frutti del suo investimento che, in teoria, possono anche essere reinvestiti a tassi di interesse più remunerativi. Nel caso di uno zero coupon, non essendoci la componente cedolare, una variazione al rialzo dei tassi si riflette unicamente sulla componente reddituale.
A parità di scadenza, dunque, in base alla diversa struttura finanziaria di un titolo è possibile cogliere un diverso grado di reattività dei prezzi rispetto ai movimenti dei tassi di interesse. In altri termini, la vita residua non è un indicatore sufficientemente preciso per esprimere la sensibilità alle variazioni del rischio di mercato o quella che viene definita volatilità di un titolo obbligazionario.
Sotto il profilo matematico-finanziario, la scadenza (vita residua) prende in esame solo i flussi di rimborso in conto capitale, senza alcuna considerazione di quelli in conto cedola. Un indicatore che sintetizza tutte le caratteristiche e le prestazioni attese di un titolo obbligazionario e del relativo contributo alla determinazione del prezzo è rappresentato proprio dalla duration o durata media finanziaria.
Tecnicamente la duration è definita come la media delle scadenze dei flussi attesi (cedole periodiche e rimborso del capitale a scadenza), ponderate per il rapporto fra il relativo valore attuale e il prezzo tel quel del titolo (somma tra il prezzo secco, ovvero quello di quotazione, e il rateo maturato) esprimendo, in frazioni di anno (proprio come la scadenza), il tempo medio di incasso dei flussi finanziari generati dal titolo. Così, ad esempio, un BTP con cedola pari a 5,5%, una scadenza pari a 5 anni e un tasso di rendimento (TRES) del 3%, avrà presumibilmente una duration pari a 4,35 anni.
Intuitivamente e al di là delle formulazioni matematiche, la duration è legata al concetto economico, secondo cui quanto prima un capitale è incassato meno variabile è il suo valore attuale e, di conseguenza, meno rischioso. La duration, di conseguenza, dipende in misura diretta dalla scadenza: più lontana è la scadenza, maggiore sarà la duration.
In secondo luogo la duration dipende dall'esistenza o meno di importi cedolari che scadono durante l'arco di vita del titolo: a parità di scadenza, un titolo caratterizzato da flussi cedolari avrà una duration inferiore a uno zero coupon, poiché i frutti dell'investimento vengono incassati prima. Per il medesimo ragionamento, per quelli che staccano cedola, a parità di scadenza, i titoli con minor duration saranno quelli che hanno le cedole più alte e, a parità di scadenza e di cedola, quelli che staccano le cedole più frequentemente.
Oltre al concetto prettamente intuitivo, la duration consente di quantificare dal punto di vista numerico (e di riflesso monetario) la sensitività del prezzo di un titolo obbligazionario ai movimenti dei tassi di interesse. Tramite la duration, o meglio la duration modificata (pari alla duration/I + TRES), siamo cioè in grado di calcolare la variazione percentuale del prezzo di un titolo obbligazionario a seguito di una variazione occorsa nei tassi di interesse. Data la relazione inversa tra prezzi e rendimenti descritta in precedenza, maggiore è la duration, più ampia sarà la variazione percentuale del prezzo provocata da una variazione del rendimento.
La duration non è quindi soltanto una misura della lunghezza del titolo, ma anche della sua volatilità: maggiore è la duration, più il titolo è volatile. Cioè, per una data variazione del rendimento a scadenza, maggiore è la duration di un titolo, maggiore sarà la variazione percentuale del suo prezzo. In termini pratici, se si considera ad esempio un BTP con scadenza pari a 5 anni e duration pari a 4,35, e un BTP con scadenza pari a 10 anni e duration pari a 8,125, ipotizzando un aumento dei tassi di interesse di 50 basis point (variazione omogenea su tutta la curva dei tassi), il prezzo del primo BTP si ridurrà del 2,11% (passando, ad esempio, da 100 a 97,89), mentre il prezzo del secondo BTP scenderà del 3,91% (passando, ad esempio, da 100 a 96,09); viceversa nel caso opposto di riduzione dei tassi.
La duration consente molti utilizzi nel campo della finanza, specie per la costruzione di portafogli strategici sulla base delle proprie aspettative sui movimenti della curva dei tassi. Per un risparmiatore, conoscerla può anzitutto servire per comparare la rischiosità di due strumenti obbligazionari che presentano una struttura finanziaria non omogenea. Quelli con duration più elevata sono più rischiosi perché possono subire maggiori oscillazioni nel prezzo a seguito di variazioni nei tassi di interesse.