Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 20 aprile 2020, n. 7920 (In sede di fusione societaria, è ammissibile la diversificazione dei valori delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio della società incorporata).
1. - F.S. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Padova Banca Popolare Antoniana Veneta s.p.a. assumendo di aver sofferto, quale proprietario di 170.000 azioni di risparmio di Banca Nazionale dell’Agricoltura s.p.a., una perdita patrimoniale: questa si sarebbe prodotta, secondo l’istante, in conseguenza della fusione per incorporazione della seconda società nella prima.
Per quanto qui rileva l’attore, che era divenuto titolare di 7.727,27 azioni ordinarie della Banca Popolare Antoniana Veneta, contestava il criterio assunto per il concambio delle azioni, avendo riguardo al fatto che in ragione di esso la sua quota percentuale di capitale sociale era diminuita del 44,31% ed il valore economico della sua partecipazione si era ridotto da Lire 658.625.730 a Lire 366.768.680.
Domandava quindi in via principale l’accertamento circa l’esattezza del criterio di redistribuzione all’interno del rapporto di concambio, con condanna della controparte, nel caso in cui detto accertamento avesse avuto esito negativo, al risarcimento del danno; chiedeva in subordine di accertare il danno derivatogli da una turbativa del mercato tesa alla svalutazione delle azioni di risparmio.
Nel contraddittorio con Banca Popolare Antoniana Veneta, che resisteva alle domande attrici, il Tribunale di Padova rigettava queste ultime.
2. - F. proponeva appello, invocando l’eguaglianza dei diritti patrimoniali fra azionisti ordinari, privilegiati e di risparmio, e la conseguente necessità di operare una paritaria distribuzione delle azioni da ricevere in cambio da parte dei soci della società incorporata.
La Corte di appello di Venezia decideva il gravame con sentenza del 13 maggio 2015, rigettandolo. Negava, in sintesi, la necessità di regolare il rapporto assoggettando le azioni ordinarie e quelle di risparmio al medesimo trattamento; riteneva che all’adozione di un criterio unitario di valutazione ostasse l’"indiscutibile esistenza di diritti particolari di alcune categorie di azioni, e fra esse, delle azioni di risparmio"; in particolare, "in presenza di una condizione differenziale del titolo", sarebbe risultato necessario procedere a rettificare la modalità di computo della partecipazione azionaria basata sulla stima del rapporto esistente tra il valore complessivo del patrimonio della società emittente al numero dei titoli in circolazione "al fine di valorizzare e riflettere le diversità di diritti di ciascuna categoria di titoli incorporati", giacché "alla presenza di diversi diritti incorporati nel titolo consegue un diverso valore intrinseco rispecchiato dal diverso prezzo che l’azione può spuntare sul mercato". In tal senso, secondo il giudice distrettuale, risultava essere "del tutto congruente assumere al fine di rappresentare la rispettiva valutazione dei titoli le differenti loro valutazioni espresse dal mercato, quale parametro complementare alle valutazioni patrimoniali e reddituali cui è ispirata la determinazione del rapporto di cambio".
3. - La pronuncia è impugnata per cassazione da F. con un ricorso basato su tre motivi. Resiste con controricorso Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. già Banca Antoniana Veneta. Sono state depositate le memorie ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. - Il primo motivo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 2348 c.c. e della L. n. 216 del 1974, art. 14. Rileva il ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe disatteso la prescrizione in base alla quale le azioni devono essere di eguale valore. Sottolinea, in proposito, che, pur essendo vero che ad azioni di categorie diverse corrispondono diritti diversi, non potrebbe attribuirsi alle azioni un valore differente, stante la loro ontologica essenza di quote di capitale sociale.
Col secondo mezzo è denunciata la violazione degli artt. 2350, 2247, 2252, 1372 e 1321 c.c.. La sentenza impugnata è censurata laddove ha finito per escludere che le azioni di risparmio siano rappresentative di una quota astratta del capitale sociale, con ciò negando la possibilità di attribuire alle stesse il diritto a una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione.
Il terzo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2501 ter, n. 3 (non dell’art. 2501 bis, come invece indicato, per mero errore, nel ricorso) e dell’art. 2247 c.c.. Osserva l’istante che nell’espressione "rapporto di cambio delle azioni", contenuta nella prima delle norme richiamate, il termine "azioni" è riferita alla quota sociale, sicché le società per azioni e le altre società in cui la partecipazione sociale è rappresentata, per l’appunto, da quote, si pongono sullo stesso piano. Il ricorrente evidenzia, inoltre, che la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto del fatto che l’art. 2501 ter c.c., n. 3, parla di "rapporto" e non di "rapporti" di cambio.
2. - I tre motivi possono esaminarsi congiuntamente perché vertono sulla medesima questione, riguardata da diverse angolazioni, e non sono fondati.
2.1. - Il ricorrente lamenta, in sintesi, che il rapporto di cambio sia stato definito attribuendo alle azioni di risparmio un valore diverso - inferiore - rispetto a quello assegnato alle azioni ordinarie: il che avrebbe portato a una ingiustificata alterazione, in senso peggiorativo, della misura della propria partecipazione nella società incorporata, avendo specificamente riguardo al diritto all’utile di esercizio e al diritto alla quota in sede di liquidazione.
2.2. - Può osservarsi, in termini generali, che il rapporto di cambio dipende dalla discrezionalità tecnica degli amministratori, essendo influenzato non solo da valutazioni di carattere economico, ma anche da fattori diversi: sicché deve escludersi che esso sia univocamente desumibile dal rapporto matematico intercorrente tra le unità patrimoniali facenti capo alle due società. In tal senso, questa Corte ha avuto modo di sottolineare il rilievo che assumono tali elementi di valutazione indiretta del patrimonio sociale (dati, ad esempio, dalla qualità dell’organizzazione, dal prestigio aziendale o dal prezzo di borsa delle azioni), la cui applicazione non risponde a criteri scientifici (Cass. 21 luglio 2016, n. 15025); di più, viene comunemente osservato che nella determinazione del rapporto di cambio incidono anche considerazioni di comune convenienza: ed è stato sottolineato, in dottrina, come il rapporto di cambio sia il frutto di complesse valutazioni legate all’esistenza di trattative tra le parti interessate o, nelle fusioni intragruppo, a scelte degli amministratori che sono espressione del gruppo di comando.
Sintomaticamente, la legge non richiede che il rapporto di cambio sia ricavato con esattezza matematica dalla considerazione di elementi predeterminati. È anzi da osservare che il legislatore non ha nemmeno fissato precisi criteri direttivi per la determinazione del rapporto di cambio: il che spiega come la sindacabilità della delibera assembleare che approva il progetto di fusione sia circoscritta, quanto al rapporto adottato, ai casi in cui questo sia determinato in modo arbitrario o sulla base di dati incompleti o non veritieri (così Cass. 11 dicembre 2000, n. 15599).
Il legislatore si limita a postulare che il rapporto di cambio sia "congruo": infatti, nel quadro della disciplina della fusione, l’art. 2501 sexies c.c., nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 6 del 2003 (come in precedenza l’art. 2501 quinquies c.c., inserito dal D.Lgs. n. 22 del 1991) stabilisce che uno o più esperti per ciascuna società redigano "una relazione sulla congruità del rapporto di cambio delle azioni o delle quote".
Come questa Corte ha precisato, non esiste, dunque, un unico rapporto di cambio esatto, dovendo tale rapporto essere determinato all’interno di una ragionevole banda di oscillazione: con la conseguenza che "la nozione di congruità finisce per ammettere una pluralità di concambi, i quali, entro il menzionato accettabile arco di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista del legislatore" (Cass. 21 luglio 2016, n. 15025 cit.).
È da chiedersi se nella prospettiva, assunta dalla legge, di un concambio non rigido, sia possibile attribuire valori differenti alle diverse categorie di azioni emesse dalla società incorporata: se, in altri termini, la discrezionalità di cui godono gli amministratori ricomprenda la possibilità di distinguere la misura della partecipazione che i soci possano vantare in ragione della diversa tipologia dei titoli rappresentativi del patrimonio della società.
2.3. - Per rispondere al quesito occorre muovere dalla ovvia premessa che il rapporto di cambio si stabilisce tra le azioni delle società interessate alla fusione, come si desume dall’art. 2501 ter, comma 1, n. 3) e, prima della riforma, dall’art. 2501 bis c.c., comma 1, n. 3). In ogni operazione di fusione per incorporazione si tratta infatti di stabilire il numero delle azioni della società incorporante che vanno assegnate ai soci dell’incorporata che si vedranno annullare le azioni da loro inizialmente possedute.
Il valore delle azioni costituisce funzione dei diritti patrimoniali e amministrativi che queste racchiudono e tali diritti sono descritti dal regime giuridico, differenziato, pertinente ad ogni distinta categoria dei titoli.
Vero è che in base all’art. 2348 c.c., comma 1, le azioni "devono essere di eguale valore", ma la disposizione si riferisce al valore nominale che devono possedere i titoli all’atto della loro emissione: ciò che in questa sede deve verificarsi è, invece, se, ai fini del concambio, ad azioni di una determinata categoria possa essere attribuito un valore diverso rispetto a quello conferito alle azioni di altra categoria.
2.4. - Che le azioni possano attribuire diritti diversi è implicitamente riconosciuto, in linea generale, dell’art. 2348 c.c., comma 3, il quale, nel prevedere una declinazione del principio di eguaglianza all’interno della medesima categoria di azioni, finisce per attribuire al principio stesso - come riconosciuto dalla dottrina più autorevole - una valenza relativa: una valenza ben diversa, cioè, da quella che parrebbe esprimere, in termini programmatici, il comma 1 dello stesso articolo, allorché sancisce che le azioni "conferiscono ai loro possessori uguali diritti".
Con particolare riferimento alle azioni di risparmio, esse, a norma della L. n. 216 del 1974, art. 14, comma 4, "attribuiscono gli stessi diritti delle azioni ordinarie", ma la disposizione fa espressamente salvo "quanto stabilito nei successivi commi e nell’art. 15". Da tali ulteriori prescrizioni risulta, come è noto, che le azioni di risparmio attribuiscono speciali vantaggi in sede di distribuzione del dividendo, ma non assegnano ai loro possessori il diritto di voto.
Ora, il valore delle azioni dipende, come accennato, da un apprezzamento che investe, nella loro complessità, i diritti che esse conferiscono: tali diritti non sono soltanto quelli, richiamati dal ricorrente, di natura patrimoniale (aventi ad oggetto gli utili e la quota di liquidazione: art. 2350 c.c.), ma anche quelli inerenti all’amministrazione della società (e in particolare, per l’appunto, il diritto di voto: art. 2351 c.c.). Da tale punto di vista, una diversificazione del valore dei titoli appartenenti alle due categorie trova piena giustificazione; proprio perché l’azione incorpora sia diritti patrimoniali, sia diritti di partecipazione alla vita amministrativa della società, è certamente possibile che il valore dei titoli non sia lo stesso quando gli uni e gli altri diritti risultino, in base al rispettivo statuto normativo, differentemente modulati. Benché, dunque, non possa escludersi, a priori, che le azioni ordinarie e le azioni di risparmio della società incorporata possano presentare, in concreto, il medesimo rapporto di cambio con le azioni ordinarie dell’incorporante, è certo che alla definizione del concambio non possa pervenirsi senza considerare le differenze tra le due categorie di azioni dell’incorporata, pena l’inaccettabile equiparazione, nel trattamento giuridico, di diritti di partecipazione che sono differenti.
La disciplina giuridica della fusione non contiene, del resto, disposizioni che postulino la necessità di assegnare alle diverse categorie di azioni il medesimo rapporto di cambio.
In particolare, non pare significativo che l’art. 2501 ter - già art. 2501 bis c.c., comma 1, n. 3) - usi l’espressione "rapporto di cambio", al singolare, e non contempli, dunque, una pluralità di concambi. La formulazione adottata può trovare una agevole spiegazione ove la si riferisca all’ipotesi elementare in cui la società incorporata abbia provveduto all’emissione delle sole azioni ordinarie. È invece indicativo, in senso contrario, che lo stesso articolo, precisi, del medesimo comma 1, n. 7), che dal progetto di fusione debba risultare anche "il trattamento eventualmente riservato a particolari categorie di soci e ai possessori di titoli diversi dalle azioni", giacché tale locuzione è da raccordare (pure) alle differenziate modalità di determinazione del rapporto di cambio nel caso in cui vengano in questione varie categorie di azioni.
2.5. - In termini generali è corretto allora ritenere, con la dottrina aziendalistica, che, ai fini della determinazione del rapporto di cambio in presenza di azioni ordinarie e azioni di risparmio emesse dalla società incorporata, si debba anzitutto procedere alla fissazione della c.d. parità interna, vale a dire alla definizione del rapporto di valore tra le diverse tipologie dei titoli della società incorporata, e poi alla definizione della c.d. parità esterna, e cioè alla stima del concambio sia tra le azioni ordinarie della società incorporata e le azioni ordinarie della società incorporante, sia tra le azioni di risparmio dell’incorporata e le azioni ordinarie dell’incorporante.
La decisione della Corte di merito muove proprio dalla necessità di stabilire il rapporto di valore esistente tra le azioni di risparmio e le azioni ordinarie: ciò che per l’appunto attiene alla fissazione della richiamata parità interna.
2.6. - La necessità di raffrontare il valore dei titoli appartenenti alle diverse categorie rende ragione di un accertamento, quale quello compiuto dal giudice di appello, diretto all’individuazione del differente valore di mercato delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio.
Il valore di mercato di un titolo azionario dipende normalmente dalla diversità dei diritti che il titolo incorpora: per impiegare una felice locuzione già utilizzata in dottrina, il mercato esprime infatti una stima in termini economico-patrimoniali di tali diritti. In conseguenza, non potrebbe di certo ritenersi arbitrario un rapporto di cambio che sia differenziato in ragione delle diverse quotazioni delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio della società incorporata. Tali quotazioni sono infatti in grado di "pesare" i diritti patrimoniali e amministrativi propri delle due categorie di azioni.
La determinazione del valore delle azioni sulla base delle quotazioni ricevute sul mercato costituisce, del resto, un criterio non solo rispondente a un canone di ragionevolezza, ma sintomaticamente fatto proprio dal legislatore, se pure ad altri fini. Vanno citati, in proposito, l’art. 2437 ter c.c. (in precedenza l’art. 2437 c.c.) sui criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso del socio, che impone, salvo diverse disposizioni statutarie, di liquidare le azioni quotate sui mercati regolamentati facendo riferimento alla media dei prezzi di chiusura delle medesime nell’ultimo semestre, e l’art. 2441 c.c., sul diritto di opzione in caso di nuove emissioni di azioni o di obbligazioni convertibili, che prescrive di tener conto, nel prezzo delle azioni quotate, oltre che del patrimonio netto, anche dell’andamento delle quotazioni per lo stesso arco di tempo.
Sono, queste, disposizioni che oltretutto sconfessano, sul piano del diritto positivo, l’assunto del ricorrente secondo cui il valore delle azioni vada meccanicamente ricavato dalla quota di patrimonio che nominalmente rappresentano: ed è anzi significativo che l’art. 2437 ter c.c., comma 1, richieda agli amministratori di tener conto dell’"eventuale valore di mercato delle azioni" anche per i titoli non quotati.
2.7. - In conclusione, per rispondere al quesito posto al precedente punto 2.2, deve ritenersi senz’altro ammissibile la diversificazione, in sede di concambio, dei valori delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio della società incorporata. Gli amministratori ben potranno, e anzi dovranno, per non incorrere in arbitrio, stabilire il rapporto di cambio tenendo conto della diversa consistenza dei diritti connaturati alle due categorie di azioni.
La pronuncia della Corte di appello si sottrae, quindi, a censura.
Essa risulta essersi conformata al seguente principio: nel caso di fusione per incorporazione, il rapporto di cambio tra azioni di risparmio della società incorporata e azioni ordinarie della società incorporante deve calcolarsi tenendo conto che il valore delle prime non è necessariamente coincidente con quello delle azioni ordinarie della stessa incorporata, giacché il valore delle azioni di risparmio, che può essere desunto dalle quotazioni di mercato dei titoli, è funzione dei diritti, non solo di natura patrimoniale, ma anche di natura amministrativa, conferiti dalle azioni in questione.
3. - Il ricorso è respinto.
4. - Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.