Cassazione civile, Sez. I, ord. del 9 maggio 2022 n. 14582 (assegno divorzile e funzione perequativo-compensativa).
Con sentenza del 22.5.19, il Tribunale di Verona, preso atto dell'intervenuta cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalle parti, pose a carico di A.L. l'obbligo di pagare la somma mensile di Euro 300,00 a favore di P.P. a titolo di assegno divorzile, sulla base della documentata differenza tra la situazione patrimoniale della ricorrente P. (la quale priva di beni immobili, percepiva lo stipendio mensile di Euro 1450,00 pagando un canone di locazione) e quella dell'ex-marito (il quale, proprietario d'immobili, percepiva un reddito mensile netto pari a Euro 2600,00) e considerando il contributo dell'ex-moglie alla conduzione familiare nel quasi trentennio di durata del matrimonio, che aveva giovato all'A. nello svolgimento della sua attività lavorativa.
Avverso tale sentenza propose appello A.L. lamentando la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, contestando i criteri seguiti dal Tribunale per la determinazione dell'assegno divorzile, per aver egli versato all'ex-moglie la somma di Euro 65000,00 utilizzata per l'acquisto, attraverso un mutuo, della proprietà dell'immobile destinato a casa coniugale, cointestato ad entrambi i coniugi, e per aver diviso con la stessa la somma di Euro 15.000,00.
Con sentenza dell'8.11.19, la Corte d'appello, in accoglimento parziale dell'appello, ridusse l'assegno divorzile nella somma di Euro 150,00 mensili, osservando che: erano irrilevanti la cessione della quota di comproprietà immobiliare alla P. e i prestiti contratti da entrambe le parti, atteso che tale cessione consisteva in una mera trasformazione di ricchezza in quanto lasciava invariata la consistenza patrimoniale delle parti; sussisteva il diritto della P. all'assegno divorzile la quale, sulla premessa di percepire un reddito appena sufficiente a garantirle un livello di vita adeguato, aveva allevato quattro figli, rimanendo assente dal lavoro per circa sette anni, lavorando successivamente quale bidella per poi acquisire le mansioni di impiegata.
A.L. ricorre in cassazione con due motivi, illustrati con memoria. Non si è costituita la P..
Ritenuto in diritto che:
Il primo motivo denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per non aver la Corte d'appello accolto l'istanza di revoca dell'assegno divorzile per l'insussistenza della funzione assistenziale dell'assegno, adottando al riguardo una motivazione contraddittoria, avendo cioè riconosciuto l'assegno divorzile, seppure dimezzato, pur affermando l'adeguatezza dei redditi dell'ex-moglie.
Il secondo motivo denunzia violazione e falsa applicazione del medesimo art. 5, per aver la Corte d'appello errato nel riconoscere una sperequazione rilevante tra la situazione reddituale degli ex-coniugi, pur non avendo l'appellata dimostrato i sacrifici patiti, ovvero l'essersi sacrificata per la famiglia, apportando un contributo positivo alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge, ciò anche per l'omessa prova della possibilità che avrebbe avuto di svolgere un'attività lavorativa migliore se non avesse interrotto il lavoro che svolgeva, tenendo altresì conto che l'accudimento dei figli non aveva precluso alla stessa P. la propria attività lavorativa impiegatizia secondo la progressione in ruolo. Al riguardo, il ricorrente adduce altresì che in sede di separazione, per comune accordo tra le parti, gli fu affidato il figlio minorenne.
I due motivi, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono infondati.
Invero, va osservato che, in materia di assegno divorzile, il giudizio sull'adeguatezza dei redditi degli ex coniugi - cui consegue nell'ipotesi di accertato squilibrio determinato dallo scioglimento del vincolo, l'operatività del meccanismo compensativo-retributivo per l'attribuzione e determinazione in concreto - deve essere improntato al criterio dell'effettività, con valutazione da svolgersi all'attualità e non in forza di un giudizio ipotetico, le cui premesse, quanto alla loro verificabilità, restino incerte, o si fondino su un ragionamento ipotetico i cui esiti vengano ricalcati su pregressi contesti individuali ed economici, non più rispondenti a quello di riferimento (Cass., n. 35710/21).
È stato altresì affermato che, nel valutare la spettanza dell'assegno divorzile si deve tenere conto della funzione non solo assistenziale ma anche perequativa e compensativa di tale contributo; ovvero, i vari criteri sono da ritenere equiordinati, essendo lo squilibrio economico-reddituale una precondizione di fatto della decisione sulla spettanza dell'assegno divorzile; sicché, ove il coniuge richiedente, dopo essersi dedicato nei primi anni del matrimonio esclusivamente alla famiglia, abbia intrapreso un'attività lavorativa a tempo parziale, occorre accertare il momento in cui è maturata tale decisione e le ragioni della stessa, nonché verificare se essa sia stata effettuata in autonomia o concordata con l'altro coniuge e se l'attività sia stata fin dall'origine a tempo parziale, considerando infine se, anche in relazione all'età del richiedente, detta scelta debba considerarsi ormai irreversibile, oppure se quest'ultimo possa ancora incrementare il proprio reddito, optando per la prestazione di lavoro a tempo pieno (Cass., n. 23318/21). È stato ancora rilevato che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch'essa assegnata dal legislatore all'assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (Cass., SU, n. 18287/18; n. 24250/21).
Orbene, nel caso concreto, in applicazione dei principi suddetti, il collegio ritiene di discostarsi dall'orientamento minoritario, richiamato dal ricorrente, secondo il quale pur dopo la predetta pronuncia delle SU del 2018, "risulterebbe confermata l'imprescindibile finalità assistenziale dell'assegno divorzile, con la quale può concorrere, a determinate condizioni, quella compensativa" (in tal senso Cass., n. 24934/19); peraltro, il suddetto orientamento è stato superato con successive pronunce (Cass., n. 5603/20; Cass., n. 24250/21; n. 38362/21).
Infatti, l'assegno riconosciuto alla ricorrente, dimezzato nell'importo, è legittimo alla luce della funzione perequativo-compensativa che tale assegno ha assunto alla stregua dell'orientamento di legittimità richiamato, pur percependo l'ex-moglie un reddito idoneo a garantirle un livello di vita adeguato. Al riguardo, la Corte territoriale ha ben argomentato sul contributo fornito dalla ricorrente nei primi sette anni di vita alla conduzione della famiglia e all'accudimento dei figli, ed anche negli anni successivi, durante i quali ha svolto attività lavorativa, si è sempre occupata dei figli, mentre l'ex-marito ha potuto svolgere appieno la propria attività lavorativa.
Nulla per le spese, considerata la mancata costituzione della parte intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.