18/02/2024 - Cassazione civile sez. lav. - 12/02/2024, n. 3856 (Illegittima la condotta del datore di lavoro, tendente a mantenere un ambiente stressogeno).

18/02/2024 - Cassazione civile sez. lav. - 12/02/2024, n. 3856 (Illegittima la condotta del datore di lavoro, tendente a mantenere un ambiente stressogeno).

 

FATTI DI CAUSA

Il ricorrente impugna la sentenza con cui la Corte d'Appello di Caltanissetta, in riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Enna, rigettò la sua domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa di comportamenti persecutori tendenti al demansionamento adottati nei suoi confronti del Comune di C., presso il quale aveva prestato servizio con funzioni di comandante della polizia municipale.

Il ricorso per cassazione è articolato in sette motivi.

Il Comune di C. si è difeso con controricorso.

Il ricorrente ha altresì depositato memoria illustrativa nel termine di legge anteriore alla data fissata per la camera di consiglio ai sensi dell'art. 380-bis.1 c.p.c.

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 329,342,346 e 434 c.p.c., in riferimento all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.".

Il ricorrente si lamenta che la Corte territoriale abbia disatteso l'eccezione di inammissibilità dell'appello o, in subordine, di passaggio in giudicato di un capo non impugnato della sentenza di primo grado, con riguardo alla condanna del Comune di Catenanuova al risarcimento del danno patrimoniale da illegittima dequalificazione professionale.

Il giudice d'appello ha rigettato l'eccezione sul ritenuto presupposto che, nella sentenza di primo grado, "le... domande in punto di risarcimento di danno da dequalificazione dovevano intendersi implicitamente rigettate ... avendo trovato accoglimento solo quelle relative ai danni, morali o alla salute, patiti a causa delle denunciate condotte mobbizzanti ovvero, alternativamente, costituenti inadempimento all'obbligo di adozione delle misure di protezione ex art. 2087 c.c.".

1.1. Questo primo motivo di ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti.

1.1.1. Correttamente la Corte territoriale ha escluso l'inammissibilità dell'appello, perché - contrariamente a quanto sostiene nuovamente in questa sede la parte ricorrente - non si prospetta che il Tribunale di Enna avesse adottato un'unica decisione, sorretta da due autonome rationes decidendi, cosicché l'impugnazione limitata a una sola ratio sarebbe inammissibile, in quanto inidonea a scalfire la correttezza della decisione, saldamente fondata anche sull'altra ratio (Cass. S.U. n. 7931/2013; conformi, ex multis, Cass. nn. 4293/2016 e 16314/2019).

1.1.2. Ciò che il ricorrente prospetta è, invece, che il giudice di primo grado abbia deciso su due distinte domande, accogliendole entrambe, una relativa al danno patrimoniale da dequalificazione professionale, l'altra relativa al danno non patrimoniale da mobbing. A tale premessa il ricorrente aggiunge il rilievo che la decisione sulla prima domanda non era stata fatta oggetto di alcuna censura nell'atto d'appello del Comune di C.

L'assenza di gravame sul danno da dequalificazione è un fatto riconosciuto nella sentenza d'appello (e che nemmeno il Comune di Catenanuova mette in dubbio nel controricorso), ove però si sostiene che il Tribunale non avrebbe accolto quella domanda, avendola anzi implicitamente rigettata.

Questa affermazione è tuttavia smentita dagli ampi stralci della sentenza di primo grado riportati sia nel ricorso per cassazione, sia nella stessa sentenza d'appello. Il dispositivo del Tribunale contiene una duplice condanna al risarcimento: una riferita al "danno non patrimoniale" e una al "danno patrimoniale". Quest'ultimo, nella motivazione, è chiaramente riferito all'accertamento di "comportamenti illegittimi … concretamente idonei a ledere la sfera professionale» del lavoratore, relegato «ad un ruolo secondario nell'ambito della polizia municipale". È chiaro che i medesimi comportamenti del datore di lavoro vennero allegati nell'atto introduttivo - e poi valorizzati dal giudice di primo grado - sia come fatti generativi del danno da dequalificazione, sia come espressione di mobbing e violazione dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Ma le due domande si distinguono per il differente petitum e non c'è dubbio che il Tribunale le aveva accolte entrambe, in particolare distinguendo la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, da illegittima dequalificazione professionale, e la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale, da lesione dell'integrità psicofisica.

La sentenza della Corte d'Appello cade in evidente contraddizione laddove, riconoscendo che erano state proposte più domande, afferma che in primo grado avrebbero "trovato accoglimento solo quelle relative ai danni, morali o alla salute", pur avendo riportato per esteso il ben diverso tenore del dispositivo della sentenza del Tribunale: "1) Condanna il Comune di Catenanuova al pagamento in favore del ricorrente al risarcimento del danno patrimoniale e che si determina …; 2) Condanna il Comune di Catenanuova al pagamento in favore del ricorrente al risarcimento del danno non patrimoniale che si determina . ".

1.1.3. Ha errato, pertanto, la Corte d'Appello a non prendere nella dovuta considerazione l'eccezione del lavoratore nella parte in cui era volta a rilevare che una delle due condanne pronunciate in primo grado nei confronti del Comune di Catenanuova non era stata fatto oggetto di alcuna specifica critica nell'atto d'appello, dal che avrebbe dovuto trarre le dovute in conseguenze, in termini di parziale passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

Passaggio in giudicato relativo soltanto all'an debeatur, posto che nella sentenza si dà atto che il Comune di Catenanuova aveva svolto un secondo motivo d'appello per censurare la "liquidazione del danno, sia patrimoniale che non patrimoniale". Motivo rimasto "assorbito nell'accoglimento della prima doglianza", ma che dovrà essere riesaminato dal giudice del rinvio in esito all'accoglimento, in parte qua, del ricorso per cassazione. Infatti, la mancata riproposizione nel giudizio di legittimità delle argomentazioni esposte nell'atto di appello in relazione a motivi dichiarati assorbiti dal giudice di secondo grado non determina la definitività delle statuizioni del giudice di primo grado, in quanto sono inammissibili in sede di legittimità censure che non siano dirette contro la sentenza di appello, ma riguardino questioni sulle quali questa non si è pronunciata ritenendole assorbite, atteso che le stesse, in caso di accoglimento del ricorso per cassazione, possono essere nuovamente riproposte al giudice di rinvio (v. Cass. nn. 28400/2021, 134/2017, 8817/2012,12728/2010).

2. Il secondo motivo di ricorso - che denuncia "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 434 e 112 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c." - rimane assorbito dall'accoglimento del precedente, perché anch'esso diretto a valorizzare la mancanza di gravame contro l'accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno da illegittima dequalificazione professionale.

3. Il terzo motivo è rubricato "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.".

Con questo motivo il ricorrente censura il giudizio espresso dalla Corte d'Appello secondo cui "non sembra che dalla disanima della sequenza di atti, provvedimenti e decisioni giudiziarie prese in considerazione dal Tribunale di Enna ... possa obiettivamente cogliersi la effettiva ricorrenza di condotte datoriali connotate dalla carica persecutoria specifica ai danni del dipendente appellato", per trarne la conclusione che "difetta, in definitiva,... il cardine della figura del mobbing, ossia la rilevazione di una sequenza di atti, reiterati nel tempo, tra loro strettamente concatenati e finalisticamente indirizzati all'esclusivo fine di perseguitare il dipendente".

3.1. Il motivo è inammissibile, perché volto a censurare l'accertamento e l'apprezzamento del fatto da parte del giudice del merito, il quale ha motivato le proprie valutazioni, anche esaminando il contenuto delle prove documentali di cui il ricorrente dà una diversa lettura.

Non può essere condivisa l'affermazione del ricorrente secondo cui "la motivazione della sentenza impugnata si rivela del tutto apparente avendo omesso di valutare i superiori comprovati fatti di dequalificazione e di attività vessatorie che pur l'appellato aveva esattamente indicato ed illustrato in memoria di costituzione". La motivazione solo apparente, che si traduce in assenza di motivazione, censurabile in sede di legittimità, è cosa ben diversa dalla motivazione insufficiente nella valutazione del materiale probatorio o semplicemente non condivisa dalla parte soccombente che propone una diversa valutazione, ritenendola migliore (sui limiti della sindacabilità in cassazione della valutazione del giudice del merito sui fatti e della motivazione, si veda, per tutte, Cass. S.U. n. 8053/2014).

4. Il quarto e il quinto motivo denunciano entrambi la "violazione e falsa applicazione dell'art. 346 c.p.c.", con riferimento alla parte della sentenza impugnata in cui, essendosi ritenuta implicitamente rigettata la domanda di condanna al risarcimento del danno da dequalificazione professionale, si osserva che tale esito non era stato fatto oggetto di appello incidentale da parte del lavoratore.

5. I due motivi sono da considerare anch'essi assorbiti per effetto dell'accoglimento, per quanto di ragione, del primo motivo. Infatti, una volta statuito che la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione professionale non era stata respinta dal Tribunale, ma anzi accolta, è evidente che viene a cadere anche l'osservazione della Corte d'Appello in ordine al mancato gravame contro il rigetto di quella domanda.

6. Il sesto motivo censura "violazione e falsa applicazione degli artt. 2087,1175,1375,2697,2727 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.".

Con questo motivo il ricorrente, da un lato, contesta nuovamente l'accertamento negativo dei presupposti del mobbing e, dall'altro lato, si lamenta che la Corte d'Appello non abbia ravvisato l'alternativa ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per avere adottato condizioni lavorative stressogene (straining), anche a prescindere dalla sussistenza di tutti i connotati identificativi del mobbing.

7. Il sesto motivo va esaminato, per stretta connessione logica e giuridica, insieme al settimo motivo, che è rubricato "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.», e censura la motivazione con cui la Corte d'Appello ha escluso l'esistenza degli «estremi di una responsabilità del Comune appellante per i presunti danni derivati in capo al lavoratore a causa della violazione dell'art. 2087 c.c., letto in combinato disposto con gli artt. 1175 e 1375 c.c.".

7.1. Il due motivi sono parzialmente fondati, nei termini di seguito precisati.

7.1.1. Nella misura in cui si contesta nuovamente l'accertamento e la valutazione della Corte d'Appello sulla sussistenza del mobbing, il sesto motivo è inammissibile. Nella sentenza impugnata è stato motivatamente escluso l'intento persecutorio all'origine dei comportamenti addebitati al datore di lavoro. Tale aspetto della decisione è motivato in modo non censurabile con il ricorso per cassazione.

7.1.2. Discorso diverso va svolto con riguardo all'esclusione della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. e alla relativa motivazione.

Deve essere innanzitutto ribadito che "è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 cod. civ." (così, da ultimo, Cass. n. 3692/2023). In altri termini, la responsabilità del datore di lavoro per il pregiudizio all'integrità fisica e alla personalità morale dei prestatori di lavoro copre un ambito ben più ampio rispetto alla specifica ipotesi del mobbing, che presuppone la reiterazione di molteplici comportamenti e, soprattutto, un preordinato intento persecutorio quale origine comune di quei comportamenti.

La Corte d'Appello ha dimostrato di avere ben presente tale differenza tra le due fattispecie di responsabilità, tant'è che ha dedicato una specifica parte della motivazione della sentenza alle ragioni per cui ha escluso anche la responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c. Tuttavia, la Corte territoriale è caduta in una palese contraddizione, laddove ha affermato, da un lato, di essere "in presenza di una condotta astrattamente idonea a integrare la fattispecie ex art. 2087 c.c.", ma ha negato, dall'altro lato, "la prova dell'esistenza di una patologia suscettibile di produrre un danno all'integrità psico-fisica dell'appellato" sulla base di nozioni di medicina tratte dalla pagina di un sito internet ("www.treccani.itenciclopedia /ipertensione-arteriosa") e "senza necessità di ricorrere alla scienza di un qualificato consulente tecnico medico-legale".

Paradossalmente la Corte d'Appello ha criticato il primo giudice per essersi convinto della sussistenza di un pregiudizio alla salute sulla base dell'esame diretto della documentazione medica e della consulenza di parte prodotte dal ricorrente, ma è poi caduta nel medesimo errore (uguale e contrario), negando quel danno sempre sulla base del solo esame diretto, e atecnico, di quella stessa documentazione.

In tal modo, la Corte territoriale ha svuotato di contenuto la premessa circa la "presenza di una condotta astrattamente idonea a integrare la fattispecie ex art. 2087 c.c.". Inoltre, ha dato una motivazione apodittica e, quindi, solo apparente, sulla ritenuta mancanza "di una patologia suscettibile di produrre un danno all'integrità psico-fisica dell'appellato". Va infatti ribadito che «il provvedimento che dispone la consulenza tecnica rientra sì nel potere discrezionale del giudice del merito, ma va contemperato con l'altro principio secondo cui il giudice deve sempre motivare adeguatamente la decisione adottata su una questione tecnica rilevante per la definizione della causa, con conseguente sindacabilità in sede di legittimità, sotto il profilo della mancata adeguata motivazione, della decisione di procedere (o non procedere, come nel caso in esame) alla richiesta di intervento di ausiliare tecnico in materia (v. Cass. n. 72/2011); nell'esercizio di tale potere discrezionale in ordine alla decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d'ufficio, il giudice, nel motivare il rigetto dell'istanza di ammissione, deve dimostrare di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l'istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare; pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono che si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento di una consulenza medico-legale, specie a fronte di una domanda di parte in tal senso, costituisce una carenza nell'accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza (cfr. Cass. n. 17399/2015)» (così, da ultimo Cass. n. 37027/2022).

8. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte d'Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, perché decida anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, tenendo conto del giudicato formatosi sull'an debeatur, con riferimento alla domanda di risarcimento del danno patrimoniale da dequalificazione professionale (impregiudicato il motivo d'appello sul quantum debeatur), e svolgendo gli accertamenti tecnici necessari per esprimere una motivata decisione sulla domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da violazione degli obblighi di tutela imposti al datore di lavoro dall'art. 2087 c.c.

9. Si dà atto che, in base all'esito del giudizio, non sussiste il presupposto per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

La Corte:

accoglie, per quanto di ragione, il primo, il sesto e il settimo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il terzo motivo ed assorbiti i rimanenti motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, anche per decidere sulle spese legali del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21. Novembre.2023.

Depositato in Cancelleria il 12 Febbraio 2024.